VIAGGIO DELLA SPERANZA

VIAGGIO DELLA SPERANZA

Rasua era avvolta in un telo dal quale l’unico segno di vita erano
i rantoli di dolore, come in agonia, che noi interpretammo come desiderio di vivere.

Eravamo negli anni ‘90, i più duri della dittatura ratsirakiana.
Era difficile trovare il necessario per sopravvivere. Tutto questo era centuplicato per gli abitanti delle campagne.

Tra questi villaggi c’era Ambohimandroso, a 100 chilometri dalla capitale, dove avevamo aperto una Fraternità. Si trattava di un grosso villaggio, sosta obbligatoria per i pullmans provenienti dal sud del Madagascar.
La terra era fertile e generosa, non si moriva di fame, ma era necessaria una salute di ferro o trovare strade provvidenziali per non morire.

Ebbe questa fortuna la giovane Rasua completamente ustionata da un fulmine.
L’incontrarono le suore che tornavano da una tourné. Rasua era stesa su un carretto di legno, avvolta in un panno. I famigliari, cattolici, la stavano portando verso la Chiesa: volevano battezzarla perché almeno nell’aldilà non soffrisse più.
Io mi trovavo in visita alla fraternità, di fronte a Rasua avvolta in un telo dal quale l’unico segno di vita erano i rantoli di dolore, come in agonia, che noi interpretammo come desiderio di vivere.

Non la battezzammo, ma la caricammo sulla Toyota e partimmo.
Fu un lungo pellegrinaggio di preghiera e di sofferenza.

Finalmente dopo quattro ore giungemmo all’ospedale militare in capitale. Senza esami preliminari entrò in sala operatoria e cominciarono sei ore di cura e pulizia delle piaghe cancrenose e ormai pasto di vermiciattoli sparsi su tutto il corpo.
Seguirono sei mesi di degenza, poi alcuni anni di cure nella nostra casa di Ambanidia.

Dopo tre anni ricevette i Sacramenti.
Infine decise di tornare ad Ambohomandroso per farsi una sua vita.

Suor Teresa Margherita

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